Giorno del Ricordo: 80 anni non bastano per dimenticare l’eccidio delle foibe
A partire dal 2005, il 10 febbraio di ogni anno si celebra il Giorno del Ricordo, una solennità nazionale italiana istituita con la Legge n.92 del 30 Marzo 2004, con l’obiettivo di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza appartenenti all’Italia.
Il fine ultimo di questa giornata è quello di diffondere la conoscenza di quei tragici e tristi eventi, per conservarne memoria, attraverso iniziative, convegni, incontri e dibattiti, finalizzati a “a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario ed artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate”, preservando le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale ed all’estero.

Quest’anno, la commemorazione assume una connotazione ancora più importante, dal momento che ricorre l’ottantesimo anniversario dei massacri delle foibe (detti anche infoibamenti), avvenuti al confine orientale dell’Italia, e dell’esodo forzato giuliano-dalmata (noto anche come esodo istriano).
Con il termine foibe si intendono i grandi inghiottitoi carsici, a forma di imbuto rovesciato, tipici della regione Venezia Giulia, usati come discariche, ossia specie di fenditure o voragini rocciose estremamente profonde, create dall’erosione dei corsi d’acqua, all’interno delle quali vennero gettati, spesso ancora vivi, migliaia di nostri connazionali, dopo essere stati sequestrati e torturati, per motivi etnici e politici, dai partigiani comunisti jugoslavi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, che, di fatto, sancì la resa dell’Italia agli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Si trattava di oppositori politici, fascisti, ufficiali e funzionari pubblici, esponenti di organizzazioni italiane partigiane o antifasciste e persone in vista nella comunità italiana, tutti considerati potenziali nemici del futuro Stato jugoslavo comunista, che i partigiani slavi volevano creare.
Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943, perse la vita anche Norma Cossetto, una studentessa universitaria istriana di soli 23 anni, che fu torturata, violentata ripetutamente e gettata nuda nella foiba di Villa Surani dai titini, cioè i partigiani comunisti agli ordini del maresciallo jugoslavo Tito.

Il suo cadavere, con i segni delle sevizie subite, verrà rinvenuto solo qualche mese dopo, il 10 dicembre dello stesso anno, dai Vigili del Fuoco di Pola.
Norma, oggi, è divenuta l’emblema delle sofferenze vissute da tutte quelle donne dell’Istria e della Venezia Giulia, negli anni che vanno dal 1943 al 1945.
Donne colpevoli solamente di essere state mogli, fidanzate, madri, sorelle o figlie di persone ritenute condannabili dal regime. Donne violate, catturate ed uccise al posto dei loro congiunti, usate come ostaggi o come “strumenti” di vendetta personale.
Le persecuzioni politiche ed etniche assunsero una portata maggiore e divennero ancora più frequenti nella primavera del 1945, quando l’esercito jugoslavo occupò Trieste, Gorizia e l’Istria, causando l’esodo forzato di 350mila italiani, che, da esuli in patria, furono costretti ad abbandonare le loro case.
Altri, invece, vennero infoibati dai partigiani di Tito o deportati nei campi di concentramento sloveni e croati. Numerosi arresti e massacri furono eseguiti dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, a Trieste, Gorizia, Istria e Fiume.
Secondo alcune stime recenti, il numero di vittime delle foibe sarebbe compreso tra 5.000 e 11.000 persone.
Storie di uomini, donne e bambini che raccontano l’odio razziale e l’orrore delle foibe, come quella di Bruna Fiore, esule di Pola, cresciuta a Messina, dopo essere stata costretta, a soli 3 anni, ad abbandonare la sua casa, insieme alla madre ed ai suoi sei fratelli.
Prima il padre e, poi, il fratello Lorenzo di 20 anni, scomparvero, nel 1943, per mano dei titini. La madre, in preda alla disperazione, andò alla ricerca del figlio, senza fare mai più ritorno a casa. «Anche lei fu gettata nelle foibe – raccontò Bruna – le strinsero i polsi e le caviglie con il filo spinato, quindi venne legata con gli altri prigionieri in fila sul ciglio di una foiba. Uno dei soldati sparava al primo della fila, facendo cadere dentro tutti gli altri».

Stessa sorte toccò alla nonna di Bruna, che si era prodigata per ritrovare la figlia ed il nipote Lorenzo. Bruna, insieme ai suoi cinque fratelli, fugge a bordo di un carro, per poi essere adottata da una coppia di Messina. Gli altri suoi fratelli si rifugiano, invece, in Australia, Brasile e Germania.
Un destino simile, ma con esiti più fortunati, tocca a Giuseppe Mancuso, esule di Fiume, che viene rapito, all’uscita di scuola, davanti alla fermata del tram, dalla polizia slava, che lo carica su un camion e lo costringe a lavorare in un campo di prigionia.
Quando Fiume, già occupata da due anni dalla Jugoslavia, viene formalmente annessa allo Stato slavo, Giuseppe è libero di decidere se restare o andarsene. A quel punto, raggiunge la madre ed il fratello, che si trovano a Torino, per, poi, dopo un anno, trasferirsi a Roma insieme a loro. Infine, in seguito al ritorno del padre dalla guerra, la famiglia si trasferisce a Messina.
Anche Maria Cacciola, esule di Pola, si rifugia in Sicilia con la famiglia, dopo la scomparsa del padre, avvenuta nel maggio del 1945, a guerra finita. Un viaggio travagliato, su un carro, fino a Trieste e, poi, da lì, un treno per la Sicilia.
Maria, per 50 anni, non ha mai saputo nulla della sorte toccata al genitore. Solo dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo, viene a sapere che il padre era stato catturato dai titini, mentre era al seguito del maresciallo palermitano Alfano.
Oggi, Maria Cacciola è responsabile, da alcuni anni, dell’associazione congiunti e deportati in Jugoslavia, alla ricerca dei parenti messinesi degli infoibati, per far conferire loro un’onorificenza, ma, soprattutto, per sottolineare l’importanza di conservare la memoria di quelle tristi e drammatiche vicende, frutto di «un mondo di odio e di una furia sanguinaria, che avevano come obiettivo quello di cancellare la presenza italiana in quelle terre».
A titolo onorifico di riconoscimento, lo Stato italiano conferisce un’apposita insegna metallica, in acciaio brunito e smalto, con relativo diploma, alle famiglie di tutti coloro che sono stati infoibati dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale.
«Il ricordo – ha dichiarato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – anche il più doloroso, anche quello che trae origine dal male, può diventare seme di pace e di crescita civile».
La vicenda delle foibe è stata a lungo trascurata, tanto da suscitare, nel 2007, l’indignazione dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale dichiarò che bisognava assumersi «la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».
Una storia di “pulizia etnica”, che, per tanto, troppo tempo, è stata volutamente dimenticata e che, per certi versi, rassomiglia a quella degli ebrei.
Nostri connazionali deliberatamente abbandonati dallo Stato italiano, vittime, non solo della barbarie del regime comunista jugoslavo, ma anche di un vergognoso silenzio, che ha caratterizzato una bruttissima pagina della storia italiana.
Daniele Fanale