Giù le mani dalle donne!
Il 25 Novembre di ogni anno si celebra la “Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne“, istituita per la prima volta dall’Onu nel 1999, in memoria del sacrificio delle tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, uccise il 25 Novembre del 1960 dagli agenti del dittatore Rafael Leonidas Trujillo, a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana.
Furono picchiate con dei bastoni e gettate in un burrone dai loro carnefici, che cercarono di far passare quella brutale violenza per un incidente. Sono passate alla storia con il nome di Las Mariposas (le farfalle) per il coraggio dimostrato nell’opporsi alla dittatura, lottando in prima persona per i diritti delle donne.
Il 25 Novembre del 1981 fu organizzato il primo “Incontro Internazionale Femminista delle donne latino-americane e caraibiche” che indicò il 25 Novembre come data simbolica per ricordare tutte le donne vittime di violenza.
Nel 1993, la Dichiarazione di Vienna riconobbe la violenza sulle donne come fenomeno sociale da contrastare. Eppure il femminicidio è sempre esistito, ma il suo temine ha un’origine risalente ai primi anni del 1800. Solo nel 1990, e poi nel 1992, inizia ad essere utilizzato con l’accezione moderna di “Violenza ed uccisione di una donna in quanto donna!”.
Fino a non molto tempo fa, in Italia, un uomo poteva abusare di una donna e cancellare l’abominevole sopruso grazie al cosiddetto “matrimonio riparatore”, che permetteva a lui di non dover fare i conti con la legge ed alla donna di non rimanere “zitella”.
In un clima del genere, tutte le donne violentate acconsentivano, quindi, a diventare non solo vittime di chi aveva abusato di loro, ma anche carnefici di se stesse, nell’ottica retrograda e misogina che una donna che aveva subito una violenza difficilmente avrebbe potuto trovare marito.
“La femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia” è l’insegnamento di una madre ad una ragazzina di 15 anni che si prepara a diventare donna, riportato nell’ultimo romanzo di Viola Ardone intitolato “Oliva Denaro”.
Accadde, però, che una ragazza siciliana di soli 17 anni ebbe l’eroico coraggio di dire NO!
«Non fu un gesto coraggioso, ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi qualsiasi donna! Ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé! Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti, non è difficile: io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa, loro possono farlo semplicemente guardando nei loro cuori».
Con il suo coraggio Franca Viola aprì la strada del cambiamento, una tappa fondamentale per l’emancipazione della donna italiana. Divenne, infatti, la prima donna italiana che pubblicamente rifiutò di sposare il suo stupratore.
Franca Viola, una giovane siciliana, nata e cresciuta ad Alcamo, nel dicembre del 1965 si trovò a vivere un grande incubo insieme alla sua famiglia.
A soli 14 anni si era fidanzata con Filippo Melodia, nipote di una delle famiglie mafiose più importanti di Alcamo. Dopo alcuni anni felici passati insieme, Filippo mostra di subire la forte influenza mafiosa della sua famiglia, tanto da essere arrestato.
Il padre di Franca, Bernardo, un umile e rispettato contadino, non approvando le scelte del genero e soprattutto per proteggere la figlia, decide di sciogliere il fidanzamento. Un primo ed importante atto di coraggio e ribellione che, tuttavia, non darà la libertà a Franca, ma che, invece, scatenerà un susseguirsi di eventi dolorosi per tutta la famiglia.
Da lì a poco, infatti, i Viola si ritroveranno a vivere nella paura ed a dover affrontare le innumerevoli intimidazioni da parte della famiglia Melodia: un vigneto incendiato, una casa distrutta, una moglie e mamma picchiata, una figlia ed un figlio rapiti e picchiati.
Nulla di tutto questo farà sì che il coraggio della famiglia Viola e di Franca vengano meno. Franca verrà anche violentata proprio da quella stessa persona che le aveva professato amore eterno, ma che non aveva gradito il coraggio di un padre onesto.
In seguito, i Melodia “inviteranno” la famiglia Viola ad accettare un compromesso, utile – secondo la mentalità del tempo – ad entrambi: il cosiddetto “matrimonio riparatore”. Franca avrebbe dovuto sposare Filippo e quanto accaduto sarebbe stato dimenticato. Ma la giovane donna, nel 1969, ebbe il coraggio di rifiutare tali condizioni, denunciando il suo stupratore e preferendo accettare piuttosto il ruolo di donna disonorata.
Passeranno anni di processi e Viola si ritroverà ad affrontare lo sguardo di biasimo dei compaesani, accuse false ed illazioni, preti bigotti, pronti ad accusarla, addirittura durante l’omelia domenicale, sostenendo che “in questo stato” non avrebbe più trovato marito. Il tribunale, però, è dalla parte di Franca, e quindi Melodia, tra una minaccia e l’altra, viene condannato definitivamente.
Inizia, così, per Franca una nuova vita serena, si allontana dalla paura e trova nuovamente l’amore grazie ad un altro compaesano capace di andare oltre i pregiudizi e le malelingue. Per lei comincia anche un altro nuovo percorso di vita fatto di lotte a favore delle donne, per la loro emancipazione e la loro protezione. Percorso che, solo nel 1996, si concretizza con una legge che vede lo stupro non più come un crimine morale da confessare al prete, ma come un reato disciplinato dalla legge. Una legge che supera l’articolo 544 del codice penale che, fino ad allora, avallava il “matrimonio riparatore” come la perfetta conseguenza di uno stupro.
Una grande forza quella di Franca e della sua famiglia, così come quella di tantissime altre donne. Alcune ce l’hanno fatta, altre non hanno avuto il tempo di gridare aiuto e sono morte per mano di uomini violenti, che a parole professavano amore, ma che nei fatti volevano solo possederle e piegarle. Troppe donne non ce l’hanno fatta perché speravano in un cambiamento della persona amata o solo perché indossavano una gonna troppo corta o, ancora, perché troppo deboli ed impaurite per trovare il coraggio di chiedere aiuto.
Nell’Agosto del 2009, l’installazione artistica “Zapatos Rojos” dell’artista messicana Elina Chauvet diventa simbolo di questa lotta: 33 paia di scarpe rosse disposte a terra, davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per raccontare il lungo e difficile cammino delle donne per la conquista dei loro diritti e per sensibilizzare l’opinione pubblica.
La storia del costume ci insegna che le scarpe rosse sono un vero e proprio simbolo di femminilità, eleganza e fascino che, in quest’opera, così significativa, trasformano il loro significato positivo in negativo. Scarpe che sono state strappate con violenza dai piedi di chi avrebbe dovuto continuare a portarle e che, invece, ha trovato la morte.
Di colore rosso, perché rappresentano l’amore e la passione che si trasforma in sangue, quello delle vittime. Sono vuote e non indossate perché indicano lo strazio, la vergogna e la paura di chi non può più ribellarsi perché è stato ucciso o perché non riesce ad uscire dal limbo del terrore. Quelle stesse scarpe in grado di rendere bella una donna si trasformano in dolore, violenza e morte.
La Canadian Women’s Foundation ha recentemente inventato il segnale universale per comunicare una violenza domestica in modo silenzioso e sicuro con l’intento di chiedere aiuto. Si tratta di un semplice gesto (#Signal for Help) che consiste nel rivolgere il palmo della mano verso la telecamera o la persona, posizionare il pollice nel palmo ed infine piegare le quattro dita della mano sopra il pollice. E’, inoltre, possibile rivolgersi al centro antiviolenza e stalking chiamando il numero di telefono 1522 o le Forze dell’Ordine.
Daniele Fanale – Emanuela Fanale