Quarant’anni dalla morte del generale Dalla Chiesa, il piemontese dal cuore siculo
Una vita dedicata alla propria patria, alla giustizia ed alla lotta alla Mafia quella di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale che, con grande dedizione e forza, affrontò i cambiamenti storici e politici di un’Italia impaurita.

Oggi, si commemora il ricordo della sua morte, avvenuta quarant’anni fa, per combattere un nemico allora invisibile, ma potentissimo, chiamato Mafia.
Chi era Dalla Chiesa
Nasce nel settembre del 1920 a Saluzzo, in provincia di Cuneo, e muore, a soli 62 anni, nel settembre del 1982, a Palermo.
Figlio di un generale dei Carabinieri, mostra, sin da subito, di voler portare avanti gli insegnamenti del padre, tanto da entrare, giovanissimo, nell’Arma, già nel 1941, durante la Seconda Guerra Mondiale, partecipando alla Resistenza.
Il primo incarico in Sicilia
Dopo due lauree conseguite a pieni voti (ed in pochissimo tempo) in Giurisprudenza e Scienze Politiche, approda in Sicilia come colonnello e comandante della Legione Carabinieri, dal 1966 al 1973, per contrastare il banditismo di Salvatore Giuliano ed indagare sulla scomparsa, a Corleone, del sindacalista socialista Placido Rizzotto, per mano del boss Luciano Liggio.
Uomo degli uomini, tra tutti si farà notare per la sua affabilità, anche durante il terremoto, avvenuto nel 1968 nei territori del Belice, soccorrendo in prima persona le popolazioni colpite.
Il “Rapporto dei 114”
Contemporaneamente, porta avanti la lunga ed infinita lotta alla Mafia, riuscendo a redigere, nel 1971, il famoso “Rapporto dei 114” (Albanese Giuseppe + 113), attraverso una fitta collaborazione tra Carabinieri e Polizia.
Si trattava del più grande report sulla Mafia, una mappa dei nuovi e vecchi capimafia siciliani, in cui compaiono, per la prima volta, nomi che ricorreranno spesso nelle cronache di delitti mafiosi e che, all’epoca, erano ignoti, non solo all’opinione pubblica, ma anche alla maggior parte degli esponenti delle Forze Armate: Frank Coppola, i cugini Greco di Ciaculli, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti.
Un importantissimo documento, stilato insieme ad altri esponenti della lotta alla Mafia, quali il vicequestore Boris Giuliano ed il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo. Un impegno che pagarono tutti e tre con la vita. Tale documento anticipava quello che, poi, sarebbe venuto fuori dal maxiprocesso del 1986, istruito dal giudice Giovanni Falcone.
Infatti, Dalla Chiesa, che aveva studiato e ristudiato a fondo i flussi mafiosi, aveva capito bene che Cosa Nostra stava attuando un importante cambiamento nel suo modo di operare: l’uso della lupara sembrava quasi passato di moda, per lasciare spazio ad un modo di agire nettamente più subdolo, che si muoveva in Borsa, nascondendosi dietro il viso “pulito” di politici e uomini d’affari, che, tuttavia, rimanevano sempre legati alle proprie tradizioni gerarchiche delle famiglie siciliane.
«Dalla Chiesa intuì che i segreti dei boss erano nei tesori nascosti!», affermava, qualche anno fa, il generale Giuseppe Governale, direttore della Dia (Direzione Investigativa Antimafia).
Così la Mafia mutava per restare sempre la stessa. Cambiava abito, indossava delle maschere, ma rimaneva la solita vecchia organizzazione sporca di sangue innocente.
Le condanne
In seguito, vennero condannati per associazione a delinquere molti capi mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Calderone, e, tra le novità introdotte dal Generale, ci fu la brillante idea di mandare i boss arrestati, non più nelle prigioni del Nord Italia, ma in quelle delle isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.
Tale Rapporto, insieme a quello redatto dal questore Ermanno Sangiorgi tra il 1898 ed il 1900, contribuì a definire Cosa Nostra come un’organizzazione suddivisa in cosche, fondata sul giuramento d’onore e sull’esecuzione di atti illeciti.
Tuttavia, dal 1973 al 1977, Dalla Chiesa dovette lasciare la Sicilia per impegnarsi a Torino nella lotta contro le Brigate Rosse, tanto da creare il famoso ‘Nucleo Speciale Antiterrorismo’.
Il ritorno in Sicilia

In questi anni, però, non smise mai di indagare su Cosa Nostra, tanto che nel 1982 fece ritorno in Sicilia, perché nominato Prefetto di Palermo.
Venne ucciso, pochi mesi dopo il suo insediamento, il 3 settembre del 1982, nell’agguato, avvenuto a colpi di kalashnikov, di via Isidoro Carini, in cui persero la vita anche sua moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente di scorta Domenico Russo.
Un omicidio della Mafia su commissione per il quale rimangono ancora insoluti alcuni misteri ed interrogativi sui killer, sui mandanti e sull’isolamento istituzionale subito dal Generale, come sottolineato spesso dal figlio Nando: «La verità parziale l’abbiamo avuta, ma c’è sempre un pezzo che manca, che rimane fuori e non si può provare in tribunale».
Perché Dalla Chiesa venne inviato “disarmato” in Sicilia a combattere nella trincea dell’antimafia?
Perché le sue richieste (“poteri speciali” per combattere la Mafia, adeguate misure di protezione personale e supporto politico) non sono state minimamente prese in considerazione?
Che ruolo ha avuto la politica in quei suoi ultimi 100 giorni di isolamento istituzionale a Palermo?
“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”
Sul luogo dell’omicidio, un anonimo cittadino lasciò un cartello con la scritta: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.
Sì, perché Dalla Chiesa, in quegli anni, è stato davvero per Palermo e la Sicilia un simbolo di speranza, una luce in fondo al tunnel.
«Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli», affermava, con grandissima onestà intellettuale ed umiltà, il generale Dalla Chiesa, mostrando una enorme dignità, senso del dovere ed un infinito amore per la famiglia.

Laddove non arriva il coraggio, sopraggiunge una coscienza etica e morale ad indicare la retta via. Dietro quella figura imponente da militare integerrimo, dietro quel sabaudo tutto d’un pezzo, dietro quello sguardo altero e quel sorriso sardonico si celava un uomo di profonda umanità e sensibilità.
Oggi, a quarant’anni dalla sua morte, al di là delle retoriche commemorazioni, lo ricordiamo come un piemontese dal cuore siculo, che ha sacrificato la sua vita per cambiare la storia della nostra terra, riaccendendo la speranza nei cuori dei palermitani, dei siciliani e degli italiani onesti.
Daniele Fanale