4 Novembre 2024
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Trent’anni senza Padre Puglisi, “u parrinu chi cavusi”

«3P, così chiamiamo Padre Pino Puglisi, il Professore di religione, con le sue scarpe grosse, le sue orecchie grandi, i suoi occhi calmi», raccontava Federico, uno dei suoi alunni. Un parroco e un professore fuori dal comune, pronto ad accogliere il prossimo e a dargli quell’amore spesso negato.

Insegnava al Liceo classico Vittorio Emanuele II, ai figli della ‘Palermo bene’, ma viveva a Brancaccio (dove era nato e cresciuto), nel degrado di un quartiere palermitano abbandonato a se stesso ed in mano alla Mafia. Lottava ogni giorno per il cambiamento, per portare i giovani del quartiere sulla retta via, al fine di dare loro un futuro, lontano dai soprusi e dalle intimidazioni, lontano dalla cosca mafiosa, in cui vigeva solo la legge del più forte.

Sono trascorsi trent’anni, da quando, il 15 settembre 1993, Padre Pino Puglisi fu ucciso per mano degli uomini di Cosa Nostra, agli ordini dei fratelli Graviano. «Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto, li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto con Cristo risorto», disse Papa Francesco, nel ricordare Padre Pino, durante il giorno della sua beatificazione, avvenuta il 25 maggio 2013. Primo prete, vittima di mafia, ad essere riconosciuto come martire dalla Chiesa cattolica.

La storia di 3P, a Brancaccio, ebbe inizio il 29 settembre 1990, quando egli venne nominato parroco della chiesa di San Gaetano, in un quartiere totalmente nelle mani della Mafia dei fratelli Graviano, legati ai boss Riina e Bagarella. Don Pino era cosciente della realtà che lo circondava, comprendeva benissimo a cosa sarebbe andato incontro, ma decise ugualmente di iniziare la sua personale lotta alla Mafia, nella speranza, prima di tutto, di salvare da un destino certo i bambini che vivevano per strada.

Bambini senza un padre o una madre, perché morti ammazzati, imprigionati o spariti. Ragazzi abbandonati a se stessi, cresciuti tra le minacce, le ritorsioni e la violenza, perché privati dagli adulti di un futuro sano ed onesto. Così, attraverso attività ludiche e ricreative, Padre Pino puntava a far capire loro quanto di bello ci fosse nella vita oltre a ciò che erano abituati a conoscere e vedere. Li esortava ad uscire dai propri confini e a scoprire quel mondo che si estendeva al di là delle “mura” del loro quartiere.

Insegnava loro a sognare, a sperare e, soprattutto, a distinguere il bene dal male. Con un pallone li educava al gioco di squadra, esortandoli ad essere “fratelli” e solidali, impartendo loro il rispetto per gli altri, per se stessi e per le regole. Nasceva così, il 29 gennaio 1993, il Centro Padre Nostro, un luogo di accoglienza per i giovani, il cui obiettivo era quello di toglierli dalla strada e di strapparli alla criminalità.

Il suo profondo senso civico lo portò anche a prodigarsi per la riqualificazione del quartiere, promuovendo la sistemazione delle fogne, la creazione di un centro sanitario e la costruzione di una scuola media. «Se nasci allinferno, hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore. Ecco perché sono necessari un asilo e una scuola media. Non ci vuole forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia. Non hai idea di cosa si può fare con queste tre cose» (“Ciò che Inferno non è” – Alessandro D’Avenia).

Don Pino, inoltre, sfidò i potenti, non accettando le donazioni dei privati per le feste patronali, organizzò incontri per discutere il rapporto tra Chiesa e Mafia, rifiutò, come padrini di battesimo, uomini legati alle cosche, aprì la chiesa ai non battezzati ed iniziò a dire messa all’aperto.

Tuttavia, “u parrinu chi cavusi” – “il prete con i pantaloni”, chiamato così per la sua abitudine di non indossare l’abito talare per le strade di Brancaccio – non si limitò a questo. Infatti, anche nelle sue omelie, spesso si rivolse ai mafiosi, condannando l’organizzazione malavitosa, ma non la persona (il mafioso), che, invece, era sempre pronto ad accogliere e perdonare.

Le minacce e le intimidazioni non tardarono ad arrivare, ma Padre Pino non ne parlò mai con nessuno e, soprattutto, non si lasciò intimorire, continuando, nelle sue prediche, a rivolgersi ai mafiosi e a fare tutto il possibile per cambiare la vita e la sorte di moltissimi bambini di Brancaccio. Ci riuscì, anche dopo essere stato ammazzato, il giorno del suo 56esimo compleanno (15 settembre 1993), perché Padre Pino Puglisi vive ancora, così come il suo operato e la sua missione.

Alle 20.45, in Piazzale Anita Garibaldi, 3P scende dalla sua Fiat Uno bianca e si avvicina alla porta di casa. In quel preciso momento, qualcuno lo chiama, lui si gira, sorride…Un colpo di pistola lo raggiunge alla nuca. Da quel momento, la vita di Salvatore Grigoli, l’esecutore materiale del delitto, l’assassino più spietato di Brancaccio con 45 omicidi alle spalle, non è stata più la stessa. Quell’ultima uccisione lo avrebbe trasformato per sempre.

«C’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenere impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa», confessò Grigoli, anni dopo. Quel sorriso era stato molto più potente dell’arma che era stata usata per spegnerlo.

Un sorriso genuino e puro, in grado di annientare la violenza e la brutalità di un efferato delitto. Un sorriso traboccante di umanità, capace di scaldare il cuore freddo ed arido di uno spietato assassino, conducendolo alla via del vero pentimento.

Padre Pino Puglisi non è stato solo un educatore di giovani e un punto di riferimento fondamentale per le famiglie, ma anche un uomo dalla fede incrollabile ed un grande maestro di spiritualità, capace di combattere la cultura mafiosa semplicemente con gli insegnamenti del Vangelo e col suo smisurato coraggio.

Daniele Fanale

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